Perché tante persone nel mondo sono “impazzite” per il fenomeno Facebook?
D’accordo è un interessante canale di comunicazione che può mettere in comunione milioni di persone in tutto il mondo e questo rappresenta sicuramente una forza prorompente. Ma c’è di più! Cosa attrae così tanto le persone, che non hanno “secondi fini”, ovvero che non hanno la necessità di divulgare informazioni di interesse commerciale, politico, divulgativo di diverso tipo, ad utilizzare Facebook? Anzi, precisando meglio, a non poter fare a meno di Facebook?!
Facebook è una vetrina in cui potersi mettere in mostra! Si possono creare profili a piacimento, inserire foto, video, link, pensieri, da condividere con coloro che sono stati accettati come amici.
Tanto desiderio di “parlare di sé”, di farsi vedere dagli altri, di esibirsi, ma perché?
Chiaramente anche Facebook diviene specchio della società e della personalità di ognuno che ne fa uso. In base al tipo di persona, varierà il contenuto delle informazioni che possiamo trovare, il grado di esibizione e di intimità mostrata. Tuttavia qualcosa c’è che accomuna questo bisogno di esserci.
L’idea che ci siamo fatti (e vorremmo sottolineare che si tratta di un nostro discutibile pensiero), è che le persone si sentono sole ed insoddisfatte. Viviamo in una società così spersonalizzante, alienante, che reprime coloro che vogliano distinguersi, con continue forzature verso l’omologazione. Questo ci fa sentire svuotati, affaticati, tanto da far scemare la voglia di stare con gli altri. Ci rende più insicuri, togliendoci la voglia di metterci in gioco e di rischiare ulteriormente, magari mettendo in discussione anche i rapporti di “amicizia”.
E così, perché rischiare di sostenere una conversazione “vis à vis”, di sforzarsi ad esprimere un pensiero e ad ascoltare l’opinione dell’altro? Perché esporre le proprie emozioni, incontrandosi o scontrandosi con quelle dell’altro? Meglio “stare insieme” su Facebook, un “non luogo” in cui poter apparire, dire “ci sono”, ma in cui nessuno pretende niente. Un “non luogo” in cui si può scegliere di dire la propria, quando si vuole, oppure di non farlo affatto. Un contatto pubblica qualcosa in bacheca, un link condiviso con gli amici. Qualcun altro può scegliere di commentarlo, oppure ignorarlo. Osservando la pagina di Facebook, è possibile leggere le singole pubblicazioni dei diversi contatti, in cui spesso si scorrono i pensieri che passano per la testa in quel momento, gli stati d’animo e così via. Una serie di frasi si susseguono, sconnesse l’una dall’altra, spesso non scritte per l’altro. Osservando la pagina di Facebook è forte la sensazione di solitudine di coloro che le hanno scritte.
Con questo non vogliamo sostenere affatto che Facebook sia un mezzo negativo, da non usare perché nefasto. Semplicemente vuole essere un invito alla riflessione. Facebook non deve diventare il mezzo di comunicazione privilegiato nella vita di ognuno di noi, ma semplicemente un canale supportivo. Non dimentichiamoci che siamo “animali sociali” e che rientrando nel “guscio”, stando a casa, al sicuro, Facebook non migliorerà la qualità della nostra vita.
Dando una visione più ampia al nostro ragionamento, è evidente che più ci disgreghiamo e più favoriamo le malefatte dei governi e della società. La solitudine favorisce la paura di stare insieme. È come un circolo vizioso. Se si perde la voglia di stare insieme e di mettersi in gioco, si privilegia l’isolamento. Di qui nasce l’illusione che nulla potrà nuocerci finché siamo rintanati nel nostro “guscio”, ma se non siamo noi stessi ad esporci affinché i nostri diritti, vengano portati avanti, chi dovrebbe farlo? Non abbiamo solo doveri, ma anche diritti, e se non diamo voce e non siamo insieme fisicamente per portarli avanti, allora l’omologazione ci avrà davvero spersonalizzati.
Vorremmo concludere questa riflessione con una citazione, scritta, non da un pericoloso, sovversivo, terrorista, ma dal terzo Presidente degli Stati Uniti d’America, Thomas Jefferson (1743 – 1826).
«Non sono i popoli a dover aver paura dei propri governi, ma i governi che devono aver paura dei propri popoli.»